Come usare le fonti

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Spesso abbiamo invitato gli interessati alla pratica religiosa romana a studiare le fonti, a prenderle a riferimento, farle proprie, ma numerose discussioni (anche in ambiti associativi) mi hanno fatto rendere conto che non ho mai speso due parole sul modo in cui vanno utilizzate.

Ai fini della ricerca puramente storica lo studio delle fonti va portato avanti come l’Accademia ben c’insegna: si considerano tutte le fonti nella loro integrità (comprese le fonti archeologiche), si opera un’esegesi al fine di capire, intuire, ipotizzare quali siano stati i fatti. Ma questo metodo è utile solo ed esclusivamente ai fini della ricerca storica che è per sua natura asettica e priva di ogni interesse religioso pratico.

Per noi la questione si presenta in modo un poco differente, e richiede maggiori attenzioni poiché il fine non è -per noi- tanto conoscere i fatti, quanto penetrare una conoscenza religiosa distante secoli dalla nostra, e che non ha visto -purtroppo- nessun tipo di trasmissione diretta.
Per esprimere alcuni concetti sarà necessario -per me- proporre alcuni esempi di cose lette, o di situazioni vissute, motivo per il quale questo articoletto sarà molto più informale rispetto ad altri.
Iniziamo col dire che le fonti per noi, come anche negli studi accademici, sono un mezzo per raggiungere uno scopo. La fonte e l’indagine storica non sono il fine, ma il mezzo.
Il fine, nell’ambito della Tradizione Romana, è quello di ristabilire la Pax Deorum. Per stabilire questo rapporto di alleanza tra gli Dèi e gli uomini è necessario sapere il modo in cui va costruito, i tempi in cui va costruito, e quali sono i nostri diritti e doveri rispetto agli Dèi (compresa la forte questione morale ed etica che permeava tutta la romanità).
Il modo in cui relazionarsi con il divino, i tempi in cui va fatto, e quali sono i nostri diritti e doveri è scritto nelle fonti antiche. Queste notizie riportate dagli autori antichi non sono sempre chiare e limpide, inoltre non è sempre detto che chi studia sia un “addetto ai lavori”, e perciò risultano utili anche le ricerche accademiche che spesso integrano fonti scritte con il dato archeologico (quest’ultimo troppo spesso dimenticato da alcuni nostri esimi colleghi).
Ecco quindi il motivo per cui queste prime nostre generazioni di tradizionalisti romani necessitano di affidarsi alle fonti latine. Questa necessità, con il ristabilirsi della Tradizione e della Pax Deorum, verrà indubbiamente scemando, ma all’attuale stato dell’arte è obbligatorio che ogni tradizionalista romano conosca ed indaghi le fonti latine ed i testi accademici nel modo corretto.
E qual è questo modo corretto?

Cominciamo con un esempio:
All’interno di un gruppo operativo al quale sono affiliato, giunge all’ufficio responsabile della supervisione della pratica del gruppo stesso, una mail in cui un membro del gruppo proponeva -fonti latine alla mano- di integrare una serie di elementi rituali che a suo giudizio erano stati trascurati. Tra questi mi preme di sottolinearne due perché utili al nostro discorso: la necessità di avere un luogo di culto adeguatamente consacrato; e l’utilizzo di filologiche paterae et patellae.
A sostegno del primo argomento egli sottolineava -citando vari autori- che sarebbe stato necessario, per non offendere gli Dèi, procurarsi un tempio o almeno un altare in uno spazio sacro delimitato. Sottolineava poi che a consacrarlo sarebbe dovuto essere un magistrato dotato di imperium. Da questo primo breve esempio si capisce come si sia indagata la fonte prendendola solo per il verso formale, accademico, storico, alla ricerca dei fatti, e che non si sia tentato di penetrare a fondo le ragioni sacre per le quali queste regole vennero poste dei nostri Maggiori. È la differenza tra forma e sostanza di cui abbiamo parlato in un nostro precedente articolo.
L’apparato formale dell’esempio riportato è questo: il magistrato dotato d’imperium fonda uno spazio sacro in cui porre un tempio o un altare, che -proiettandolo ai giorni nostri- richiederebbe l’intervento di un Generale o un Ammiraglio dedicatosi alla pratica religiosa romana. L’aspetto sostanziale, che è quello che interessa a noi, è ben più complesso, cioè a dedicare uno spazio di questo tipo non può essere chiunque ma deve essere il capo assoluto, che all’epoca, in un contesto in cui tra cittadini e soldati non vi era differenza, era necessariamente il capo militare. Alle origini della Res Publica i capi di stato erano i Pretori (i Consoli verranno dopo) coloro che stanno in testa alla colonna armata (da prae-itor), infatti populus in latino significa sia “popolo” sia “esercito”, da questo ne ricaviamo che la società della Roma più arcaica (e certamente anche quella monarchica) vedeva un legame indissolubile tra la vita militare e civile. I Magistrati romani hanno ereditato gran parte delle funzioni -anche sacre- del Re, riproponendo questo legame stato civile – esercito – religione tipico di tutte le società antiche. Nei secoli questo legame si è sempre più sciolto: con la riforma mariana l’esercito diventa un’entità separata dal mondo civile, di tipo professionale; e attraverso varie vicissitudini anche la religione tende a diventare una questione sempre più separata dalla vita politica. Lo scioglimento di questi legami hanno determinato che le regole si aggiornassero, e perciò un magistrato non bastava che fosse tale, ma doveva possedere anche l’imperium cioè il comando militare, cioè doveva rappresentare in tutto e per tutto quell’unità di potere politico, religioso, e militare che caratterizzava i Re prima ed i Pretori poi. Tutto questo avveniva -in sostanza- per una questione religiosa, ovvero un indissolubile legame tra Quirino (il dio del popolo romano, da co-viri uomini insieme), Marte (padre di Romolo divinizzato, cioè Quirino) e Giove (re e padre degli Dèi, protettore dello Stato e dell’Ordine). All’epoca l’appropriazione di un luogo, anche sotto il profilo religioso, passava in qualche modo per un atto bellico: quando Romolo si appropriò del Palatino vi scagliò una lancia allo stesso modo in cui i feziali faranno il rito di dichiarazione di guerra, rammentando che Marte -tra le sue funzioni- ha anche quello di rendere fertile la terra. Questa è la spiegazione sostanziale della necessità di un magistrato dotato d‘imperium per fondare un altare o un tempio. Ma oggi come si può applicare tutto questo? Di certo nessuna realtà operativa romana è militarizzata, e perciò i suoi rappresentanti non posseggono l’imperium, similmente l’appropriazione di un terreno non passa per un evento bellico. In effetti oggi il popolo non è l’esercito, sono due fenomeni completamente distinti, e non importa se questo è positivo o negativo è la realtà della situazione. Oggi nessun membro di nessuna associazione sarebbe prae-itor, perché nessuna associazione è populus, ne consegue che il ruolo posseduto dal capo di un gruppo operativo è basato su altri principii, su altre forze, che non si manifestano sotto il profilo bellico. Il capo di un gruppo operativo non è in testa ad una colonna armata, è in testa ad una colonna di studiosi, o di una colonna di idealisti, di una colonna di praticanti, e perciò egli non sarà rappresentante di una forza connessa a Quirino e a Marte, ma ad altre divinità legate a quel ruolo che egli assume. Perché? Perché se alle origini di Roma ciò che determinava un capo (e quindi un rappresentante degli uomini verso gli altri uomini e verso gli Dèi) era la sua capacità di combattere con le armi, oggi la battaglia si profila su altri campi, e quindi non è capo chi più duramente combatte, o chi ara meglio il terreno, ma chi maggiormente conosce. Quindi oggi per fondare un altare o un tempio di una comunità non è necessario l’imperium, bensì saranno necessarie altre qualità -magari formalizzate- che sono la causa del fatto che quel individuo è a capo di una comunità religiosa. Tutto questo purché si mantengano gli stessi valori morali. Essere studiosi non significa né giustifica la mancanza di coerenza, di coraggio, di abnegazione, di senso del dovere, né il rifiuto delle virtù romane o il loro mascheramento dietro parole vuote. Non a caso Romolo scelse come capi delle curie gli uomini più coraggiosi (Dion. Hal).

Come si può vedere da questo esempio c’è una differenza enorme tra fermarsi alla superficialità del fatto storico, ed approfondirlo, analizzarlo, andare a fondo, comprendere le ragioni, le cause prime, il pensiero che c’è dietro ad una determinata scelta che fecero i nostri Maggiori. Limitarsi al fatto senza opinioni o riflessioni sui motivi profondi significa fare un lavoro esclusivamente accademico (e quindi inutile ai fini della pratica religiosa, per quanto utile ad altri scopi) assolutamente identico alla rievocazione storica.

Un esempio simile mi capitò in altro contesto quando un segno nefasto apparve al termine di un rito comunitario. Non voglio entrare nei dettagli dell’evento per ovvie ragioni, ma posso dirvi che alcuni videro in questo un collegamento con il fatto che non si avvisò la Questura della nostra presenza in quel luogo (in Italia qualunque assembramento organizzato richiede di informare la Questura, anche se si sosta solo 5 minuti), con l’argomento che nell’antica Roma era un sacro dovere rispettare le leggi, e quindi anche noi oggi dobbiamo farlo. Il non aver rispettato l’ Art 18 R.D. 773/31 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza, oltre al rischio di una sanzione pecuniaria ed il carcere fino a 6 mesi, avrebbe determinato, secondo alcuni, il manifestarsi di un segno nefastissimo che richiedeva un atto espiatorio.
Tuttavia nessuno si è posto la domanda: perché rispettare le leggi in Roma antica era un sacro dovere?
Bè il motivo abbastanza evidente a chiunque abbia studiato un minimo di storia romana: le leggi erano riconosciute dagli Dèi. Le leggi venivano discusse e votate dal Senato in templa (cioè luoghi consacrati dagli àuguri) o all’interno della Curia che era anch’esso luogo consacrato; proposte da magistrati eletti dai comizi centuriati (cioè il popolo organizzato come l’esercito, richiamando quindi Quirino e Marte, come abbiamo già spiegato prima e più approfonditamente in un nostro precedente articolo) ed i magistrati che le proponevano avevano un legame con gli Dèi fin dalla loro entrata in carica (sacrificio del cavallo del Console il primo giorno del mandato), e confermati tramite auspici. I comizi dove il popolo si radunava per votare le leggi a loro proposte, o per eleggere i Consoli, erano luoghi consacrati dagli àuguri e poste sotto la protezione di Giove. Le leggi stesse ricevevano l’approvazione divina tramite auspici. Ecco perché quelle leggi erano sacre e violarle era un atto di empietà.
Le leggi italiane non hanno nulla di tutto questo, perciò non è empio violarle; al massimo può in alcuni casi ritenersi immorale, sbagliato, poco conveniente ma non certo empio, causa di un segno nefasto, perché non hanno nulla a che vedere col Sacro.
È chiaro quindi che in un evento come questo la causa non è da ricercarsi nella violazione commessa, poiché quella legge non ha nulla di sacrale. La legge romana era sacra perché sotto tutela degli Dèi, poiché certi determinati riti ed interventi divini ne facevano una legge sacra, cosa che oggi non avviene, e quindi la violazione di una legge oggi -per quanto possa essere sbagliato- non è un atto empio, non è causa di rottura della pax deorum, non centra nulla con la religione.
Questo ritengo sia un altro chiaro esempio di come si debbano utilizzare le fonti per approfondire la questione, andare a ricercare la natura, la causa prima, l’origine di un fenomeno, e non fermarsi al copiaincollare al ripetere a pappagallo senza capire quel che sottende una fonte, un evento, un fenomeno anche religioso.

Affermare per esempio (come mi è capitato di leggere) che è un atto di empietà non possedere una patella nel rito, significa non aver capito nulla del fenomeno rituale romano. Significa non aver mai compreso i movimenti sottili interni ed esterni. Significa fermarsi alla forma del fenomeno e non calarsi nella sostanza del fenomeno. Fra l’altro significa anche fraintendere le fonti che sembrerebbero sostenere questa cosa (mentre in realtà dicono tutt’altro).
Infatti, a proposito di questo caso, dove sarebbe la sostanza rituale? Nella scelta di una scodella anziché una patella? Che Romolo illuminato ha forgiato dal fuoco appositamente le sacre patellae da utilizzare nel rito romano e le ha distinte dalle profane scodelle? Ed anche se fosse, quale sarebbe il passaggio metafisico per cui una patella e una scodella si differenziano? Partendo dalla natura metafisica della divinità, passando per il moto di energie che tramuta la parola e l’azione in evento, in materia, attraverso il contatto con il divino, giungendo alla sublimazione dell’offerta, che ruolo avrebbe la più o meno profondità di una scodella o di una patella e la presenza o assenza di bracci?
È evidente che la sostanza del rito sia questa, mentre la profondità della scodella è forma. Naturalmente sono pronto a ritrattare le mie idee se qualcuno può sostenere una “metafisica della patella-scodella” necessaria ed imprescindibile (tanto che la sua mancanza sarebbe atto di empietà). Se fosse mai davvero possibile dimostrarlo…

Tralasciando l’amara ironia, è evidente che la mancanza di approfondimento verticale del fenomeno religioso romano porta ad intellettualismi inutili destinati solo ed esclusivamente a due strade: la totale o pressoché totale mancanza di pratica religiosa adducendo ogni genere di scusante (es. la pratica religiosa romana è solo a Roma, o che le feste pubbliche non ha senso festeggiarle in privato, che i romani offrivano agli Dèi per tradizione e non per sincero sentimento religioso, etc.); o la rievocazione storica che ha le apparenze della rituaria romana ma nei fatti è priva di ogni partecipazione divina.

Infatti la via corretta è un’altra. Studiare le fonti come abbiamo sempre detto, e contemporaneamente interrogarsi sulle cose, praticare e sperimentare. Abbiamo dato delle linee guida su come cominciare QUI, metterle in pratica sarebbe già un buon inizio.
Lo studio e la pratica vanno portati avanti insieme, perché è necessario capire sperimentando quel che si sta facendo e quel che intendevano gli antichi.
Non solo è necessario approfondire gli aspetti religiosi, comprenderli, vedere come la religione si infiltra in ogni aspetto del mondo romano dalla vita quotidiana alle leggi, comprendendo che non basta un trucco di procedura per aggirare un problema religioso. Bisogna approfondire ed andare a vedere la sostanza delle questioni, la sostanza del fenomeno religioso, immedesimarsi nella testa degli antichi e vedere con i loro occhi il mondo circostante. Non solo ripetere a memoria le fonti latine ma comprenderle e farne propria la sostanza di quel che intendono tramandarci. E per fare questo non bisogna mai stancarsi di fare collegamenti, e chiedersi il “perché” delle cose che si stanno leggendo, non limitandosi mai a prendere per buono e pacificamente quel che si è letto, ma inseguire perennemente la risposta. Sapendo naturalmente che, nel nostro percorso, la gran parte delle risposte si ottengono praticando regolarmente, sacrificando agli Dèi, e facendo esperienza. Non fare alcun rito, o limitarsi alle calende alle none e alle idi è del tutto inutile, e manifesta un profondo disinteresse per la venerazione verso gli Dèi mascherato di intellettualismo.

Ecco perché è invece necessario andare alla sostanza, alla natura originaria, alla causa prima, al significato profondo di quel che una fonte ci dice.

In fine, molto più brevemente, le fonti latine forniscono un’infinità di spunti, insegnamenti, occasioni di riflessione che permetto di apprendere i segreti per viviere una vita -anche sul piano profano- serena.

Emanuele Viotti

in copertina: foto di un rito dell’associazione Templum che ha organizzato una raccolta fondi internazionale per costruire un intero santuario, e lo sta costruendo, che pratica regolarmente, mentre qui si discute dei titoli magistraturali e della profondità delle scodelle.

3 commenti su “Come usare le fonti”

  1. approfontito e interessante ma…..se il lignaggio delle varie divinita’ e’ andato perduto,e la frammentazione della storia non permette una ricostruzione perfetta del rituale,come e’ possibile l’invocazione al Dio di riferimento se la “pratica”e’ andata smarrita?

    1. Emanuele Viotti – Salve a tutti, Sono uno dei tanti ragazzi che studiano le religioni e la storia antica, nel mio caso ho un grande amore per la Civiltà Romana. Al di là di questo sono un tipo sportivo, faccio paracadutismo, arrampico, adoro la montagna. Filosoficamente parlando: tutto intorno a noi, sacro e profano, deve avere una logica almeno causale, mi considero uno "scienziato del metafisico". Per questo ho creato Ad Maiora Vertite, perché tra santoni e mistici, sono convinto che si possa portare avanti una ricerca spirituale romana che sia sensata e concreta (senza scomodare sogni ed apparizioni).
      Emanuele Viotti ha detto:

      Non ho capito il tuo commento. Che intendi per “lignaggio”?
      I riti romani li abbiamo… se lo Stato desse mandato potremmo ricominciare a praticare i sacra publica già da domani…

    2. Emanuele Viotti – Salve a tutti, Sono uno dei tanti ragazzi che studiano le religioni e la storia antica, nel mio caso ho un grande amore per la Civiltà Romana. Al di là di questo sono un tipo sportivo, faccio paracadutismo, arrampico, adoro la montagna. Filosoficamente parlando: tutto intorno a noi, sacro e profano, deve avere una logica almeno causale, mi considero uno "scienziato del metafisico". Per questo ho creato Ad Maiora Vertite, perché tra santoni e mistici, sono convinto che si possa portare avanti una ricerca spirituale romana che sia sensata e concreta (senza scomodare sogni ed apparizioni).
      Emanuele Viotti ha detto:

      In realtà della pratica abbiamo tutto l’aspetto formale…. basta metterla in pratica perché le lacune si riempiano da sole

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